Il lavoro che cambia: il cinema
di Sergio Bellucci
Quello che non riuscì alla crisi del ’29 sta riuscendo alla rottura sistemica della Transizione. Allora la crisi non riuscì a svuotare le sale cinematografiche e il cinema rappresentò sia uno dei settori che uscì rafforzato da quel tornante storico, sia uno dei punti di forza della costruzioni di un “senso” sociale condiviso che favorì le politiche del New Deal. Oggi, nel mondo dei flussi digitalizzati incoerenti e personalizzati, si determinano nuovi processi, sia sul piano della coesione sociale, sia sul piano delle catene produttive e distributive. Questi processi attraversano tutti i comparti ma sono più veloci e profondi nei settori dei cicli economici immateriali. I segnali principali, al momento, riguardano la produzione cinematografica e la catena della sua distribuzione.
Le regole di questo mondo si sono trasformate negli anni. Dopo i decenni in cui le tecnologie a disposizione per la fruizione erano legate esclusivamente alla sala cinematografica, l’avvento della televisione comportò un assestamento che determinò accordi sulla distribuzione che sono durati decenni. Il film andava prima distribuito nelle sale e solo dopo un determinato periodo di tempo dalla sua uscita sarebbe potuto approdare alla distribuzione televisiva.
Per anni l’equilibrio sembrò determinare un assetto stabile e duraturo, quasi un assetto “naturale”. Ma nulla di immodificabile esiste nelle società umane e l’avvento del digitale aprì forti tensioni sui meccanismi di produzione e distribuzione del prodotto filmico e sulla sua fruizione. Da un lato i “puristi”, i “tradizionalisti”, quelli che “il film si vede solo al cinema” e, dall’altro, il mondo dell’innovazione digitale (e delle persone che non si potevano permettere i costi della fruizione in sala, che nel frattempo avevano raggiunto un livello selettivo che escludeva molte famiglie) che non solo iniziava a “scaricare” film per fruirne sul PC e/o sugli smartTV, ma lo faceva in maniera sempre più gratuita attraverso piattaforme ad hoc più o meno “legali”, più o meno appoggiate dalle stesse case cinematografiche.
La crisi del Covid-19 rappresenta, probabilmente, un nuovo salto qualitativo. Da un lato il comparto produttivo deve sfornare i titoli che aveva prodotto per la corrente stagione per evitare il collo di bottiglia della distribuzione dei titoli natalizi, dall’altro il mondo della produzione sconta sia la difficoltà produttiva relativa alle regole di lavoro imposte dalla limitazione dei contagi – con un blocco produttivo che potrebbe cambiare la stessa sua logica e virare in maniera consistente verso la virtualità – sia con i cambiamenti del modello di fruizione collettiva delle sale.
Rompendo gli indugi, la Universal ha lanciato il suo ultimo cartone senza passare per le sale cinematografiche e il settore delle sale, che è già al collasso, grida al tradimento.
Il punto è che, per la prima volta nella sua storia, Hollywood sta affrontando la scomparsa quasi totale dei suoi incassi al botteghino, e questo per un periodo che non è possibile definire e che rischia di diventare “strutturale”. Il consumo di film nelle sale potrebbe divenire un elemento “secondario” nei comportamenti delle persone, anche per il miglioramento qualitativo rappresentato dagli schermi casalinghi, dalla velocità della rete a banda larghissima e dai nuovi modelli di distribuzione basati sulla logica introdotta da Netflix.
A spaventare il comparto negli USA sono alcuni dati.
Durante la settimana del 14-24 febbraio, le vendite del cinema negli Stati Uniti sono ammontate a $ 215 milioni. La settimana del 13 marzo, gli effetti dell’epidemia hanno iniziato a farsi sentire. Risultato: solo 58,9 milioni al botteghino. Dopo le misure di contenimento a metà marzo, le vendite sono scese a $ 5.179. Per la settimana dal 3 al 9 aprile, l’intera industria cinematografica ha condiviso $ 3,855.
Caro Sergio non solo, permettimi di citare il messaggio del Presidente Mattarella: “Per ricostruire il nostro Paese dopo la drammatica epidemia sarà necessario recuperare ispirazioni e, quindi, tornare a sognare e a far sognare. E questo è il compito precipuo dell’arte, della creatività e degli artisti.” Mi pare parli da solo, non è retorica, è che se non sostituiamo il pensiero critico alla anestesia televisiva che ha pervaso ogni altro campo di applicazione, ogni altro settore non sarà in grado di ripartire.
Caro Aldo, la difficoltà di affrontare la Transizione è sicuramente prima un aspetto cognitivo per poi divenire politico. Il personale è politico, dicevamo da giovani… è qui per personale non si intendono solo le relazioni e la dimensione familiare o il destino dell’individuo ma la stessa dimensione cognitiva, di senso della vita. Accettare che una situazione sociale ed economica stia morendo, soprattutto qui nel mondo ricco e benestante e anche nei soggetti che ne hanno beneficiato in minima parte, è un problema culturale e poi politico. Pensare il nuovo parte dall’accettare la qualità dell’esistente e questa accettazione è difficile da farsi. Molte volte nella vita ci siamo domandati: Perché le persone nel ’39 non fuggirono davanti alla guerra ormai certa e chiara? Perché si lasciarono travolgere da fatti che erano ormai “nelle cose”? Ecco, la risposta la stiamo vivendo ed è quella più semplice: le persone hanno una inerzia incredibile, anche quelle che si dicono più rivoluzionarie…