La Transizione – Intervento di Aldo Di Russo
LA TRANSIZIONE: IL CONTRIBUTO DI ALDO DI RUSSO
Quasi ogni giorno mi capita di leggere sui giornali o trovare nella posta privata, appelli o invocazioni relative ai pericoli derivanti dalle crepe e dai crolli dei pilastri fondanti della nostra civiltà e, come conseguenza, della necessità di riflettere e lavorare per ricostruire una struttura coesa e condivisa che possa tenere insieme i valori e i diritti per proporre nuove regole del gioco.
Stamattina un alto esponente di un partito di governo si è fatto ricevere dal Presidente del Consiglio; dai resoconti del colloquio si ricava di come abbiano discusso della necessità di riaprire le discoteche e non dei licenziamenti in tronco o delle violenze gratuite nelle carceri. È lo specchio di un problema economico? Di un problema politico? Certo, anche, ma il disastro è culturale.
È il crollo di un sistema di regole e relazioni che non è più in grado di sostenere sviluppo e progresso e che nella sua lotta scomposta per sopravvivere alla sua stessa incapacità sta trascinando nel crollo le fondamenta stesse di una intera civiltà e della sua coesione sociale.
Da queste pagine avevamo lanciato un appello ai lettori ed agli intellettuali a fornire idee per il dopo pandemia immaginando che il domani sarebbe stato completamente diverso. Lo chiamammo “e se domani…”, invocando la canzone di Mina che mette insieme la perdita di un amore al mondo intero inteso come la ragione della propria esistenza. Dietro c’era l’idea che la pandemia potesse essere il colpo di grazia e insieme l’occasione a che tutto potesse cambiare. Abbiamo avuto reazioni e interventi dall’Italia al Portogallo, dall’Iran alla Germania che hanno fornito materia prima per molte riflessioni successive oggi contenute in un libro, ma prima di tutto, sono state la possibilità di unire sotto lo stesso tema, visuali provenienti da punti di vista e campi di applicazione diversi. Poeti, economisti, scrittori, politici, giornalisti, ciascuno dal proprio punto di vista, hanno scoperchiato proprio quelle aree di sovrapposizione tra le discipline in cui, secondo il mio parere, potrà avvenire l’innovazione. Rispetto alla pandemia non siamo ancora oltre l’ostacolo, si contano i danni e in molte parti del pianeta sono attivi piani di rinascita e di resilienza che mettono sul tavolo somme di danaro pubblico mai viste nella storia del pianeta per la ricostruzione di una vita in comune, si tratta di strategie che vanno riempite di contenuti e poi attuate. Chi, per quale scopo, con quali sistemi di controllo, in favore di quale modello di sviluppo è un argomento tutto da definire e senza perdere tempo. Per questo Moondo si fa promotore di una nuova antologia delle idee che avrà anche, a settembre, un appuntamento a cui tutti potranno partecipare e di cui vi parleremo nei prossimi giorni. Si parlerà di transizione, ossia del contrario di una crisi, di un cambio di paradigma che non può più essere rimesso in equilibrio con aggiustamenti strutturali anche profondi, ma che deve essere rivisto nelle sue basi fondanti in funzione di una coesione sociale ritrovata.
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Un po’ di paura me la fanno due dei tre lemmi usati per definire i piani dei governi: ricostruzione e resilienza. “Ricostruzione” significherebbe cercare di riportare le cose a come erano prima. Ma questo è proprio quello che occorre evitare di fare. Non si tratta di modificare l’alimentazione del nostro motore o inserire una innovazione nel carburatore affinché sia più veloce la corsa, quando la direzione è sbagliata, occorre cambiare strada e muoversi con altri mezzi. Questo dovremmo poter fare, anche perché esiste un potenziale tecnologico inimmaginabile per le generazioni che ci hanno preceduto. Peccato che questo stia tenendo in piedi un sistema non più in grado di redistribuire il frutto dello stesso sviluppo, nemmeno con lo scopo di alimentare i consumi come aveva fatto per sanare precedenti crisi di sovrapproduzione. Si tratta semplicemente di un collasso che genera divisione, emarginazione, accumulazione incontrollata e incontrollabile fino alla rottura facendo implodere ogni forma di progresso al di là dell’economia, al di là della tecnologia.
Per una analisi della differenza tra sviluppo e progresso rimando alla lettura di Pier Paolo Pasolini che da grande artista aveva scritto e previsto esattamente quello che si è avverato.
Sarebbe il caso di capire come e cosa costruire e non ricostruire quello che ha fallito. Ricostruire si può fare in presenza di un guasto, si aggiusta il pezzo rotto e si rimette in piedi la macchina come era prima. Non siamo di fronte ad alcuna crisi, siamo di fronte al fallimento di un sistema, di un paradigma e di una classe dirigente che non ha alcuna colta essendo assolutamente coerente e organica con tutto quello che ha fallito, una classe dirigente che, nel migliore dei casi, usa strumenti di analisi della società capaci di misurare vecchi parametri che non sono più indice di un bel nulla. Quindi, secondo me, ricostruire proprio non va.
L’altro lemma è “resilienza”. Insieme a “sinergia” è diventata la versione moderna del latinorum di Don Abbondio. Ricordate Renzo dei promessi Sposi che voleva solo in moglie la donna che amava? Il prete minacciato dal perfido don Rodrigo cercava ogni scusa per non celebrare il matrimonio e così elenca in latino una serie di impedimenti che il povero contadino non è in grado di capire. Resilienza è in fisica la capacità di un metallo di resistere ad una sollecitazione senza rompersi tornando al precedente stato di operatività, è intesa poi come una capacità di adattamento, di sopravvivenza. Certo una forza individuale in caso di bisogno, sapersi rialzare è indice di carattere e di forza d’animo, ma se proposta come valore collettivo rischia di spegnere la consapevolezza e la coscienza di chi, pur sapendosi adattare alla sofferenza, lotta per cambiare, per resistere e per vincere. La mia paura sta nel fatto che questo sapersi sempre adattare, in epoca di cambiamenti epocali e di transizione, possa diventare una grande fregatura se impoverisce la voglia di cambiamento proprio quando il cambiamento è necessario. Anni dopo il povero Renzo del Manzoni, masse enormi di contadini, capaci di adattarsi ed ogni fatica e ad ogni sacrificio e ancora incapaci di comprendere il latino, utilizzarono la loro coscienza critica e insieme uomini come Emilio Sereni o Alcide de Gasperi per confluire nella resistenza, e non rifugiandosi nella resilienza. Avevano individuato il luogo del conflitto per crescere e costruire un cambiamento epocale: dal fascismo alla democrazia, dalla monarchia alla repubblica. Per me la resilienza è un po come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo, non mi faccio abbindolare dalle parole difficili, cerco di capire.
Ho anche provato a guardarmi davanti allo specchio e ad immaginarmi in un corteo per la rivendicazione dei mei diritti. Ho provato a gridare a voce alta “ ORA E SEMPRE RESILIENZA”. Mi è venuto da ridere. Sarà l’età avanzata o una certa dimestichezza con la storia, ma preferisco la parola di prima.
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Forse ha proprio ragione Sergio Bellucci quando afferma che il marketing ha vinto sul capitalismo. Gramsci direbbe che il blocco sociale che nasce quando le élite ed il popolo si saldano è disgregato alla fonte quando si insegue il consenso ad ogni costo come un levriero insegue una lepre di pezza nella corsa dei cani. Questo sembra solo un fenomeno di sottocultura, invece, secondo me, nasconde non solo una incapacità strategia, ma prima di tutto la perdita di quella funzione di controllo, dominio della persuasione che era il grande retaggio del mondo antico fino al capitalismo stesso, il quale, quando dominava sul marketing, utilizzava le argomentazioni razionali per costruire le tecnologie che hanno alimentato la propria industria. Oggi le argomentazioni vincenti sono emotive, metafisiche, strumentali, faziose, perchè sono più facili, ma anche perchè servono solo per poco tempo. Le dimostrazioni convincenti, il dialogo, la scienza, stanno per essere spazzate via insieme all’acqua sporca, come succede al bambino del proverbio.
Immagino che abbiate goduto come me guadando la finale del campionato europeo di calcio, importante, emotiva, trascinante, apprensiva, ma una partita, solo una partita. In tribuna c’era una famiglia felice che si candida a regnare su uno dei più importanti paesi al mondo: un paese erede di una grande democrazia e in più, inventore del teatro moderno. Dico questo perché immagino che si tratti di persone che della rappresentazione dovrebbero intendersene. Facevano il tifo per la propria squadra, sperando, come tutti del resto, che vincesse. Certo il loro ruolo era diverso, padroni di casa, di sangue reale, non potevano non essere li che per consegnare al vincitore il premio in palio. Improvvisamente spariscono solo perché hanno vinto gli altri. Non può essere! Spariscono per non inimicarsi il popolo i cui animi erano esacerbati da una politica che aveva trasformato quella partita in una brexit – rivalsa. Inimicarsi il popolo? Ma caro principe, non devi mica essere eletto alle prossime elezioni! Quando lo fa il leader della politica disco-dance lo capisco, non lo approvo, ma lo capisco, che lo faccia un possibile futuro re mi mette sottosopra. Un re deve mostrare al suo popolo la strada e non appiattirsi sul consenso della folla, mica deve raccogliere preferenze. Allora penso: e se questo fosse una figurazione del marasma culturale? Se dentro l’incapacità di comprendere l’essenza stessa dello sport ci fosse una scena chiave dell’enigma “come siamo arrivati a questo punto”? Ogni rappresentazione pubblica, lo inventarono i tragediografi greci, muove corde dell’animo che sono inaccessibili al semplice mondo della parola, quel comportamento istituzionale qualcosa deve significare se esibito in mondovisione.
Dimostra proprio la vittoria del marketing su qualsiasi altra attività dello scibile umano, quello con cui cominciavo la riflessione, il prodotto non conta più nulla e con lui l’organizzazione che lo produce: l’industria, lo stesso capitale è ormai sottomesso al consenso. Io che nutro una alta considerazione delle masse organizzate che hanno reso possibili e concreti molti dei diritti di cui oggi godono le nostre democrazie, non nutro altrettanta considerazione per le folle siano esse televisive o da stadio. Per me restano ancora quelle che gridarono Barabba libero e sono certo che lo griderebbero ancora, magari sostenuti da un sondaggio on line.
Lo sport, caro principe, invece, lo hanno inventato i Greci i quali avevano dell’agone la precisa idea di un metodo di rafforzamento della propria tempra morale come base e sostegno della propria vita di pensiero e di studio. Hanno inventato le gare, hanno inventato il premio al vincitore. Come funziona? Semplice, se si corre in cento, che sia a piedi o il bicicletta che si corra veloci o lenti che si giochi a calcio o si tiri di scherma, solo uno sarà il vincitore, gli altri novantanove no. Di conseguenza, tanto per stare sempre dalla parte della maggioranza, mi sembra semplice ricavarne che quelle gare furono inventate per imparare a perdere e non per imparare a vincere. L’attività umana per cui chi perde è messo male si chiama guerra e non sport. Allora, per capire quanto la società sia arrivata in basso dobbiamo cercare di misurare la distanza tra Olimpia e Wembley.
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La distanza è la stessa che esiste tra l’agone e la guerra. Quando le argomentazioni mancano vince l’insulto che ha anche il grande vantaggio di non richiedere troppi anni di studio. Si vive in modo semplice: divisi e schierati, tutti mercenari non retribuiti per uno scontro tra fazioni rivali. In politica: conservatori o progressisti, corrente uno e corrente due, vaccinati e no vax, vegani e non, credenti e laici, apocalittici e integrati, come Umberto Eco aveva diviso l’afflato umano verso la tecnologia. Tutti schierati e pronti a combattere. Questo tipo di atteggiamento ostile verso l’altro, la ricerca dello scontro, dipende dalla profonda consapevolezza che le proprie posizioni siano dalla parte della verità: una e inviolabile. Come dire: a furia di vivere guidati da algoritmi in grado di selezionare per noi solo partner affini alla propria posizione, ci si convince facilmente di essere la maggioranza dei pensanti, basta escludere gli altri. La terra può essere piatta, i vaccini nocivi, il covid un complotto. Il lavoro una concessione e lo smartphone un diritto, la ragione un optional l’insulto un confronto. Così Olimpia non è Wembley.
Eraclito considerava il conflitto come l’inizio di qualsiasi dinamica vitale, addirittura in grado di avere un potere creatore. L’armonia del mondo, per quella gente li, derivava dall’attrito esistente tra parti diverse del reale posti in relazione tra loro, quindi occorreva cercare il conflitto per crescere, creare e vivere in armonia. Senza conflitto non c’è armonia. Ciascun punto di equilibrio contiene la tensione necessaria a riconfigurare se stesso in altro. Oggi l’insulto è gratuito, l’aggressività una regola e la relazione è solo un link; Olimpia non è Wembley. Poi ci pensano i media ad inventare talk show di una inutilità abissale, su temi inesistenti o su temi importanti trattati con una superficialità impressionante. Costruire schieramenti e risse verbali con il solo scopo di nascondere la povertà del linguaggio e delle argomentazioni, quando la rete televisiva è pubblica, dovrebbe forgiare e non inseguire, essere Olimpia e non Wembley.
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Il conflitto come luogo di creatività mi sembra un punto di partenza interessante per una conclusione dedicata ai nostri lettori più giovani. Proprio ieri il nuovo drammatico rapporti INVALSI ha fotografato in crescita la percentuale di studenti che affrontano le scuole superiori con la preparazione da quinta elementare. I media si sono precipitati sulla notizia accusando il covid e la conseguente necessità di una didattica a distanza che certamente può aver avuto un ruolo all’interno di una curva che però procede inesorabile in discesa da moltissimi anni ben prima del covid. L’ignoranza porta una montagna di frutti ai sistemi sull’orlo del collasso perchè riduce le possibilità di reazione e di conflitto, se in rete circolano tutorial e applicazioni utili a come poter ingannare l’insegnante collegato in rete, a come e dove copiare gli elaborati, a come far credere di essere presenti sullo schermo essendo altrove, significa che dietro c’è la profonda sottocultura del consenso invece della formazione, la figlia del dio marketing che come fece Zeus con suo padre Crono spodestò il capitalismo industriale imponendo il modello di cui stiamo celebrando il funerale. Sulla didattica, sulla formazione, sugli coscienza degli studenti dobbiamo fondare una parte importante delle nostre forze, invitandoli a puntare sulla loro formazione e non sul successo indipendente da questo. Il Principe aspirante al trono che si comporta come il politico della disco dance sono esempi terribilmente negativi, esattamente come chi cita il successo in miliardi di Bill Gates o di Mark Zuckerberg come connesso alla loro interruzione degli studi. Esempi negativi sono quei genitori che troppo spesso intervengono sugli insegnanti dei figli dimenticando quanto sia formativo il rapporto diretto tra due ruoli essenziali alla civiltà e quanto sia formativa la capacità di stare ed uscire da un conflitto in corso. In italiano la parola “polemica” ha assunto un senso negativo, sterile, utile solo a intrattenere senza alcun vantaggio per chi vi partecipa solo esche è fatta di urla e non di argomenti, il conflitto di Eraclito, Platone, Aristotele si chiamava nello stesso modo: pólemos ed era proprio il contrario di un talk show, un modo per sviluppare un ragionamento intorno alla realtà. Naturalmente la distanza tra pólemos e polemica è la stessa che c’è tra Olimpia e Wembley, dipende dalla mancanza di logos, cioè di capacità di sviluppare un ragionamento critico. Nella Repubblica di Platone il pólemos ha la funzione di produrre il governo dello stato e di tenere sempre in movimento la società civile. Qualunque valenza distruttiva è escusa e assoggettata al suo ruolo propulsivo che va applicato, attenti ragazzi che affrontate la formazione scolastica, prima di tutto a se stessi per eliminare i nemici interni, i pregiudizi, quelli che, chi parla difficile chiama bias cognitivi.
A questo punto aspettiamo di poter riempire di contenuti questa seconda antologia di idee per la rinascita in attesa di incontrarci a settembre per un confronto e per due giorni di polemica alla greca. Grazie, Eraclito per essere ancora con noi, accompagnaci in questa impresa.