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Distorsione prospettica 2: Una Repubblica democratica fondata sul lavoro

Rubrica a cura di Jana Vizmuller Zocco* –

L’Italia vista dal Canada offre un mondo di possibili riflessioni sull’andamento sociale, politico, economico, psicologico, istituzionale, tecnologico delle relazioni umane. Questa rubrica vuole captare, una alla volta, le possibilità degli immaginabili sviluppi della vita in Italia (e altrove) nel dopo-Covid-19.

Per merito della pandemia Covid-19  è utile riscoprire i significati più profondi di alcune parole chiave della cultura italiana e magari immaginarne delle necessarie future trasformazioni. Si potrebbe iniziare a fare questa disamina con il temine lavoro. Non sfugge, a chi guarda l’Italia dal di fuori, che il primo Articolo della Costituzione italiana lascia molte perplessità.  Il primo Articolo è altamente originale, nel senso che pochissimi testi delle Costituzioni degli Stati esistenti oggi fanno uso della parola “lavoro” e nessuna con la funzione datagli nell’Articolo italiano. [i] 

            Il contenuto del primo Articolo, uno dei principi fondamentali della Costituzione italiana, è risaputo:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Il testo della prima frase della Costituzione italiana[ii] è stato definito “limpido”, “involontariamente ironico”, “poco soddisfacente”, “rivoluzionario”; inoltre,  le sue parole fanno suscitare “nel lettore un amaro sorriso” (Sergio Romano): queste reazioni mettono in chiaro la poca saldezza semantica della frase. La polifonia dei significati denotativi e connotativi è  sicuramente dovuta  alla storia travagliata della stesura di questo Articolo costituzionale (tanto per  citare un esempio, Palmiro Togliatti avrebbe preferito, per motivi ovvi, “Repubblica dei Lavoratori”). Per di più`,  le impressioni politiche, sociali, economiche correnti sono meno che pacifiche.

Tre sono le conseguenze concettuali della prima frase:

  1. Il lavoro precede l’esistenza della Repubblica: “fondare” significa “costruire, edificare, creare”, allora la Repubblica viene edificata sopra la base, i.e., sopra il lavoro. Senza il “lavoro” non esisterebbe la Repubblica. Forse il significato generico di “lavoro” qui riflette la definizione marxiana del lavoro che separa l’uomo dall’animale e la definizione cattolica che considera il lavoro come un bene utile e degno: tutt’e due vedono il lavoro come parte integrante della società senza tener in conto le esigenze psicologiche dell’individuo, e senza tener in conto le conseguenze psicologiche per l’individuo. Il lavoro sottosta` all’identità e alla dignità umana, gli individui si autodefniscono spesso attraverso la loro occupazione. La pandemia in corso ha sottolineato questa crisi identitaria, nel senso che tutti si arrampicano per tornare al lavoro, per passare le ore negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche, nelle aule. E come se il concetto del “lavoro” facesse parte del DNA umano: il primo Articolo rafforza la ubiqua necessità del lavoro e del lavorare.
  2. La Repubblica non ha nessun obbligo di accertarsi che le condizioni che fanno creare il lavoro siano in atto. È vero che, come viene scritto nell’Articolo 4, la Repubblica “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ma il diritto al lavoro non è sufficiente da solo per creare il lavoro stesso. Le condizioni del diritto al lavoro includono, purtroppo, il clientelismo, il familismo, pochissimo rispetto per la meritocrazia, e altri ostacoli illustrati dalla situazione di tanti precari, di tanti diplomati e laureati meritevoli senza un lavoro fisso. In aggiunta, il diritto al lavoro non lascia nessuno spazio alla possibilità della sparizione del lavoro come condizione sine qua non della vita umana: la scomparsa del lavoro umano si sta verificando ora, grazie alla disoccupazione causata dalla tecnologia. La Costituzione non prevede soluzioni ai nuovi problemi.   
  3. Il primo Articolo non si pone il problema del lavoro come fatica o come un’occupazione  insoddisfacente.  In italiano (e non solo), “lavoro” può essere definito come “un’attività che ha lo scopo di produrre qualcosa”, in questo senso sia l’insegnante, sia l’agricoltore, sia l’infermiere, sia l’operaio sia il ladro, sia il mafioso “lavorano”. In ogni caso, la connotazione che accompagna “lavoro” normalmente rispecchia l’etimologia, perché in latino LABOR significa “fatica/sforzo/operosità. Da qui, i vari dialetti italiani continuano il concetto di “fatica”: fatiga’, altri “tortura”, per es.,  travagghiari (da tripaliare = “torturare”), e i vari laorar, ecc. Il lavoro produce il sudore, anche metaforico (le sudate carte di Leopardi). In sostanza, il lavoro è duro, e pochissime volte offre soddisfazioni personali: ma di questo, non c’è menzione nel primo articolo della Costituzione.

Sembra che la pandemia in corso abbia portato a galla le varie gerarchie pragmatiche di tutte le attività produttive. Si sono riscoperti i lavori “essenziali” per la salute dei cittadini, per il trasporto dei beni di prima necessità , per la pulizia personale e cittadina. Invece di cogliere l’occasione e ripensare completamente al significato di lavoro, si parla tanto del lavoro svolto per conto d’altri a casa propria, delle attività redditizie, ci si porgono domande sul futuro lavorativo dei giovani oggi. Il ciclo commerciale capitalista (produrre-consumare-produrre-consumare ad infinitum) crea l’odierna corsa pazza da parte delle forze politiche di tutti i paesi, di porre fine alla “forzata inattività/improduttività” dei cittadini.

            L’ironia di questa situazione sorge quando si abbina al lavoro il suo contrario: l’ozio. Sembra che gli Italiani (o chi li rappresenta politicamente) stiano perdendo una bellissima opportunità di prendere il toro per le corna e iniziare a distogliere lo sguardo dal lavoro insegnando al mondo intero il tanto ammirato e invidiato talento tutto italiano per il dolce far niente. Questo concetto, dalla prospettiva anglofona (o forse mondiale), ha una valutazione altamente positiva, è un’attività (!) psicologica da imitare, da apprendere. I turisti vengono in Italia per imparare a fare niente, dolcemente. La prospettiva italiana ha avuto un capovolgimento: durante tutto l’Ottocento, il dolce far niente era il difetto sovrano del popolo prima napoletano, e poi italiano, era l’indolenza, l’accidia, l’inerzia[iii]. Anche il secolo ventesimo ha cercato di sbarazzare l’Italia da quella accusa di accidia che il dolce far niente sembrava rivelare. Solo negli ultimi tempi anche gli Italiani stanno rivalutando l’atteggiamento negativo dell’espressione dandogli un significato positivo, quasi fosse un tipo di meditazione buddhista.

            E` dato per scontato che il lavoro ha bisogno di apprendistato e di studio, in altre parole, bisogna imparare a lavorare, sembra altrettanto vero che bisogna imparare a oziare. La pandemia ci ha offerto una possibilità unica per poter cominciare a studiare quest’arte, rivalutando non solo il lavoro[iv] ma soprattutto il suo contrario. Gli Italiani sono pronti per guidare il mondo in questa direzione?


[i] Nelle Costituzioni che ho sfogliato, ci sono delle espressioni quasi universali per quanto riguarda “il diritto al lavoro”. Per esempio, la Costituzione della Repubblica Slovacca garantisce a tutti  il diritto di scegliere liberamente la propria attività e il diritto al lavoro. Il primo Articolo della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese (Cap. I) definisce la Cina “uno stato socialista di dittatura democratica popolare, guidatadalla classe operaia e basata sull’alleanza operai-contadini.” Il Cap. II aggiunge che i cittadini della Repubblica “hanno il diritto e il dovere del lavoro”. La Costituzione Canadese garantisce sussidi a chi non lavora. Si confrontino questi con la Costituzione degli Stati Uniti, dove la parola “work” non appare.

[ii] Non mi è stato possibile consultare il libro  di Nadia Urbinati, Art. 1 Costituzione italiana (Carocci, 2017).

[iii] Nuova Antologia di Scienze Lettere ed Arti, v. ix, 1878, p. 335.

[iv] Si potrebbe iniziare con il significato del termine lavoro che il metodo Montessori utilizza nel processo di apprendimento da parte dei bambini piccoli.

*Jana Vizmuller-Zocco è professore associato di Lingua e linguistica italiane alla York University a Toronto (Canada).

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