Dalla crisi non si uscirà con le politiche monetarie
di Sergio Bellucci
Dalla crisi non si uscirà con le politiche monetarie. Di questo dobbiamo essere coscienti. Non che sia neutra la forma della moneta, chi la crea, come viene immessa, chi ci lucra e quanto ci lucra nell’immissione e nella circolazione. Quanta ricchezza viene sottratta alla vita reale da questi meccanismi e come avvantaggi pochi nel mondo. Pochi che si sentono i padroni perché hanno imposto all’intero pianeta questo gioco che pesa sulle spalle di miliardi di persone e sull’intero equilibrio e sviluppo del pianeta.
Uno dei limiti delle democrazie liberali (la famosa ripartizione tra i poteri uscita dalla fine delle ere delle Monarchie Assolute) fu non sapersi riformare nel momento in cui la massa monetaria, creata incessantemente dal meccanismo di produzione capitalistico, iniziava a diventare sempre più grande fino a diventare autonoma, creando quella dimensione finanziaria che oggi impone il proprio dominio al pianeta da decenni. Fu il momento nel quale la maggiore produzione di ricchezza passò dal ciclo del capitalismo industriale – fondato su il Denaro che era in grado di produrre delle Merci che erano in grado di produrre altro Denaro – al meccanismo in cui il Denaro produceva Denaro per mezzo del Denaro. Da D-M-D a D-D-D dicono i colti. Le regole e i meccanismi di questa nuova forma della società non furono “costituzionalizzati”, restando fuori dalle regole della Democrazia, consegnando il punto centrale della produzione della società al di fuori dello spazio democratico contendibile. Anzi. Oggi siamo in presenza di una totale inversione: sono le democrazie che hanno i limiti di intervento proprio nella difesa degli interessi di chi detiene le regole della economia basata sul D-D-D. È questo che diviene sempre più lampante anche ai più che fino a ieri non si domandavano cosa significasse, per le loro vite, questa dimensione del potere finanziario.
Oggi di fronte alla crisi del COVID-19, le cose iniziano a stridere, come le gomme in una macchina in curva in cui la velocità dell’auto, l’asfalto bagnato, il grado alcolemico del guidatore, lo stato delle gomme e le luci accecanti di un faro immobile davanti alla strada, potevano essere ignorate fino a che la strada era diritta e non sopravvenivano altre macchine in senso opposto. Anzi. Fino a quel momento il guidatore si sentiva eccitato per la velocità, la propria capacità di “controllo”, la potenza del motore e il pensiero che se pur in riserva, un benzinaio 24/h con pagamento automatico sarebbe stato sicuramente nei paraggi.
È nel suono stridente di questa sbandata che le parole rassicuranti perdono senso. Non perché non si debba e si possa sperare, ma perché avremmo tutti il compito di comprendere che l’uscita da questa crisi ci consegna la consapevolezza che dobbiamo cambiare profondamente il “senso” delle nostre società, delle nostre vite. Lo dobbiamo fare per riscoprire la nostra natura profonda, che è sociale. Lo dobbiamo fare perché questo modo è troppo profondamente diseguale e sta producendo un senso di malessere che rovina il senso della vita. Lo dobbiamo fare perché, al di là delle diatribe sulla colpa del riscaldamento climatico (umano o storico che sia) per garantire una sopravvivenza a miliardi di individui dovremmo modificare il nostro contributo al disequilibrio e al consumo sfrenato delle risorse del pianeta. Dovremmo farlo perché dobbiamo capire, nel profondo, che questo modello sociale ed economico, le sue logiche, gli egoismi che alimenta con la sua logica, sono divenuti inconciliabili con il bene del pianeta e degli esseri viventi che lo abitano.