NELL’ “ERA 4.0” ORARIO RIDOTTO E SALARIO GARANTITO
NELL’ “ERA 4.0” ORARIO RIDOTTO E SALARIO GARANTITO
Mario Agostinelli
IL TEMPO VOLA: NON SEMPRE E OVUNQUE UGUALE
Anche se sono trascorsi più di cento anni dalle intuizioni sconvolgenti di Einstein persiste un’idea del tempo che prescinde dalla velocità dei moti relativi con cui siamo a contatto e di cui siamo osservatori. Le telecomunicazioni, i bit manipolati dagli algoritmi nei computer, la “compressione” del denaro scambiato da una parte all’altra del pianeta a rapidità di centinaia di migliaia di chilometri al secondo, la lettura pressoché istantanea di un codice laser alla cassa del supermercato, costituiscono fenomeni che sono portati a compimento in sistemi di riferimento con orologi che battono ritmi ben diversi da quelli che portiamo al polso hanno a che fare con la lentezza relativa dei processi che caratterizzano i meccanismi fisici e biologici che intercettiamo coi nostri sensi. Grazie alle loro facoltà percettive e all’elaborazione delle nostre menti, che registrano con una invalicabile velocità (lentezza) fisiologica le informazioni che ci arrivano, immaginiamo e condividiamo una realtà apparente – “media”, se così si può dire – in cui non siamo in grado di distinguere le differenti frequenze di fenomeni tra loro incomparabili, spesso confinati in spazi infinitamente piccoli o dilatati in enormi estensioni. Manteniamo così la convinzione che esista un unico e immutabile orologio universale (il tempo di dio creatore e dell’umanità creata) che scandisce le dinamiche naturali, psichiche o tecnologico-artificiali in cui quotidianamente ci imbattiamo. Un tempo assoluto che non dipende dal rapporto spazio/tempo (velocità!) con cui ciascuna delle operazioni da noi osservate viene portata a termine in diversi sistemi di riferimento. Non abbiamo sempre chiaro che, ad esempio, osservando una catena di assemblaggio, i pezzi si muovono a 3 o 4 metri al secondo, i muscoli del montatore a 7 o 8 metri al secondo, i segnali nella mente di quest’ultimo a 150 metri al secondo, l’algoritmo del computer di controllo o del robot di affiancamento a 180.000 chilometri al secondo! E più lento è il movimento, più veloci scorrono le lancette del quadrante associato ad esso. La gerarchia temporale nella nuova organizzazione manifatturiera risulta tanto profondamente differenziata, ribaltata e mutata a favore dell’apparato elettronico-digitale di controllo (che avvicina la velocità della luce), da consentire la più totale saturazione dell’orario, fino all’alienazione dell’operaio-operatore controllato. Nella fase taylorista non occorreva certo essere informati di battiti più o meno lenti degli orologi appostati lungo la linea di produzione o al polso del caporeparto. Ma proprio negli stessi anni in cui Ford e Taylor predisponevano scientificamente le sequenze meccaniche nelle fabbriche dell’auto, Einstein spazzava via il “Sensorium Dei”, il cronometro universale che Newton aveva consegnato agli economisti e agli ingegneri delle grandi manifatture prima dell’avvento dell’elettronica e del digitale.
Già da dopo la Grande Crisi e con maggior frequenza dopo la metà del Novecento, radiazioni e onde elettromagnetiche, transistor, sovrabbondanza di informazioni, archiviazione del mondo in dati digitali, quanti di energia, sono prepotentemente e irreversibilmente entrati con tali rapidità e modalità invasive nella produzione e nella nostra vita attraverso la tecnologia da lasciare ai soli specialisti l’aggiornamento anche concettuale – oltre che effettuale – dell’immagine del mondo reale che andava cambiando nella sostanza. La tecnologia ha spiazzato anche nell’immaginario vitale la priorità dei bisogni: si pensi che in Africa il numero dei cellulari con chip da un miliardo di transistor ciascuno è il doppio dei rubinetti per l’acqua! Si è creato un enorme gap tra culture e conoscenze scientifico-tecniche e quelle umanistiche. Eppure, come aveva asserito Tommaso Campanella, “il genere umano, non solo questo o quell’individuo, è tenuto a dedicarsi alle scienze” a meno che “similmente si rifiuti di usare i piedi per camminare”. Ma questo ragionevole auspicio non si avvera nell’era moderna, ormai classificata con l’acronimo 4.0. Da molto purtroppo ci si dedica all’esegesi del pensiero del passato e usa assai poco camminare e guardare in avanti. E così, ostinatamente, perfino nelle organizzazioni di classe, si è rimasti galileiani, newtoniani, laplaciani, raffinati nell’uso di meccanismi comprovati ma di centinaia di anni addietro, nonostante ci si relazioni prevalentemente e indiscriminatamente con strumenti, apparecchi e congegni funzionanti non secondo la meccanica classica, ma ad una velocità come quella della luce, insuperabile nell’universo. Einstein, la relatività e i quanti ci sembrano talmente irrilevanti e astrusi da tenerli lontano dal quotidiano, che invece si trasforma sotto i nostri occhi anche nel campo della produzione, dei servizi, del consumo, della comunicazione, dell’accesso alla conoscenza. I mezzi di produzione e il capitale si concentrano anche attraverso l’affermazione di una tecnocrazia al suo servizio e si struttura così, in assenza di conflitti aperti, quello che dovremmo identificare come un nuovo fronte di classe, se solo ne valutassimo le implicazioni sociali, ambientali, politiche. Ne sottovalutiamo invece la portata perché poco o nulla sembra importarci e tanto meno conosciamo la natura e i meccanismi che regolano l’immensamente grande e l’infinitamente piccolo, in cui ci siamo inoltrati da ormai cento anni con la stessa inconsapevolezza e nostalgia della tradizione di quando si dovette constatare che la Terra non era immobile al centro dell’Universo.
SINCRONIZZARE L’OROLOGIO BIO CON QUELLI DEI SISTEMI ARTIFICIALI
È bizzarro come a pochi decenni dalla faticosa impresa di sincronizzazione degli orologi di tutto il pianeta – uno sforzo durato secoli – oggi il tempo risulti differenziato non soltanto per la posizione geografica in cui viene calcolata l’ora (in funzione della distanza di uno specifico meridiano terrestre da quello di Greenwich), ma sulla base della velocità relativa di un fenomeno rispetto ad un osservatore fermo o a sua volta in moto e/o per l’effetto che ha sul suo fluire la forza di gravità. La relazione tra i battiti più o meno lenti di orologi in movimento o ad una certa altezza dal livello del mare è perfettamente conosciuta e, di conseguenza, il tempo relativo si può sempre riportare a quello preso a riferimento. Così si può correggere la sfasatura di velocità tra i satelliti GPS e il nostro navigatore ai fini di svoltare al posto giusto, come si può calcolare quanti millisecondi guadagna una transizione finanziaria operata alla velocità delle fibre ottiche su una analoga condotta su un doppino di rame. Insomma: una volta sincronizzati gli orologi terrestri ad ogni longitudine, si può dedurre la posizione delle lancette di tutti quelli variamente in moto o dislocati ad un’altitudine diversa da quella del livello del mare.
Durò secoli il tentativo di uniformare orari e longitudini in modo che su tutto il pianeta si potesse stabilire l’ora di riferimento meridiano per meridiano. All’inizio furono gli orologi delle grandi città ad essere coordinati. Parigi lo fece con tubi sotterranei che collegavano pneumaticamente i quadranti sulle torri e i quartieri. L’avvento del telegrafo poi, la cui trasmissione ultraveloce di segnali deve comunque conteggiare anche i tempi di reazione umana alla rilevazione degli impulsi registrati, migliorò decisamente l’accuratezza, che finirà col migliorare ulteriormente con l’uso dei cavi sottomarini e, poi, con le onde radio rilevate da apparecchi appositamente costruiti e brevettati per evitare la soggettività dell’errore umano nella misura. Ma l’espansione coloniale necessitava di definizioni ancor più precise e non misurabili “ad occhio” per le coordinate dei presìdi, delle guarnigioni, delle sedi diplomatiche nelle capitali d’oltremare, degli uffici postali in continenti poco conosciuti, lontanissimi e dispersi rispetto al panorama europeo in cui si coordinavano a vista o a suono i tempi delle città (campanili), delle fabbriche (sirene), delle stazioni (fischietti e cronometri dei capotreni).
L’impresa assai ardua di mettere in riga tutti i quadranti del Nord e del Sud del mondo, portò alla luce un aspetto trascurato nell’euforia di mappare con assoluta precisione il tempo terrestre ed astronomico: ci si capacitava finalmente che in un medesimo luogo o a distanze esattamente misurabili la velocità relativa dei processi biologici, anziché psicologici, anziché tecnologici, comportava sfasature tra di loro tutt’altro che trascurabili. Per cui risultava necessario stabilire una relazione quantitativa che desse conto di come sfruttare al meglio i processi spinti alla massima velocità: quelli cioè tolti alla natura (biologici) e all’uomo (mentali) e consegnati alle apparecchiature e alle macchine appositamente progettate (elettroniche, elettriche, digitali). La rapidità di esecuzione e i tempi relativi che caratterizzano i sistemi digitali e elettronici può oggi essere prevista con assoluta precisione e organizzata a distanza, approssimando l’istantaneità e non tenendo più necessariamente conto della successione degli avvenimenti secondo una cronologia assoluta, che non esiste più, se non nell’evoluzione naturale, nelle relazioni tra persone e nella coscienza umana. Certo c’è un prezzo da pagare che non viene quasi mai messo in conto: occorre in un certo qual modo ricorrere a parametri astratti e eminentemente artificiali e “prendere le distanze” dalla natura e dalla evoluzione storica della specie. A questo tende la tecnocrazia quando interpreta relatività e quantistica come teorie che portano asintoticamente alla singolarità, all’annientamento del limite. Dopo Facebook e Google anche Instagram ha annunciato che la pubblicazione dei contenuti e delle immagini nelle loro liste non avverrà più seguendo un criterio cronologico, né mantenendo l’ora di Greenwich. Ci condurranno nelle ricerche degli oggetti di nostro interesse usando un algoritmo che assegnerà priorità a quelli ritenuti più interessanti per noi, sulla base dei profili a loro noti. Ossia, per fare un esempio, i 400 milioni di utenti del social fotografico saranno accompagnati individualmente a prendere visione dei contenuti coerenti con le “proprie” preferenze, non più organizzati per date, ma in una disposizione “contemporanea”. Si rafforza così la tendenza di ognuno di noi ad essere blindato nel proprio immaginario, dove lo scorrere del tempo non ha alcuna dimensione soggettiva, né storica, né sociale. La dimensione in cui si consuma l’informazione è il supposto gradimento dell’utente in quell’istante.
Se la velocità è spinta al massimo e il tempo è ridotto al presente; se il sistema di valori è confinato nella sfera di produzione e consumo al massimo profitto; se la società dello spreco rimane l’orizzonte in cui si inquadrano i rapporti di produzione, che altro può essere il sistema 4.0 così celebrato e mitizzato se non un tentativo di sincronizzare e saturare il più possibile gli intervalli strutturali della manifattura o dei servizi (e, perché no, dei consumi), alienando ancor più l’operatore umano e vincendone l’inerzia naturale contraria alla dilapidazione dei beni comuni? Dobbiamo allora chiederci a cosa porti la corsa frenetica alle telecomunicazioni, alla creazione di magazzini di dati strutturati e disponibili all’istante, ai sistemi esperti, alle procedure di controllo e agli algoritmi di esecuzione, agli eserciti di robot guidati da laser precisissimi, se non a creare un ambiente artificiale ad elevata produttività, esterno allo spazio biologico dell’attività lavorativa, resa totalmente dipendente dal macchinario e perciò resa impotente per contrattare orario e retribuzione.
LA “RELEASE 4.0” PRESENTATA COME UN SALTO QUANTICO
Quando un produttore vuol comunicare che la nuova “release” del suo software mostrerà prodigiosì effetti rispetto alla precedente ha l’abitudine di adottare due escamotage: salta la sequenza numerica (da Windows 8 passa a Windows 10); usa iperboli e metafore tecniche ormai di dominio comune, per sottintendere doti mirabolanti. Su questa falsariga ho letto più volte sui quotidiani che la manifattura (che non si è mai “attardata” allo stadio 3.0) è di fronte ad un “salto quantico”: letteralmente una transizione di stato discontinua o un balzo improvviso e consistente da un assetto consolidato in via di superamento e di definitivo abbandono. Consiglierei di usare minore enfasi e più cautela: in particolare, il cambiamento auspicato non può certo risolversi in una nuova fase del macchinismo portato così all’estremo da contraddire la funzione del lavoro. Nemmeno la divisione dello stesso può essere resa tanto astratta da escludere praticamente ogni forma di comunicazione tra gli addetti. Insomma, un sistema dove stanno online solo le apparecchiature non funzionerà nemmeno alla “release” 6.0! Il processo vive di eccessivo entusiasmo e dell’utopia di manager e ingegneri forse troppo retribuiti e deresponsabilizzati per prospettare un salto anche di civiltà.
Ancora non si è presentata la necessità concreta di negoziare, legiferare, sganciarsi da un destino sociale, presentato come ineludibile e avulso dal conflitto politico che sta già innestando. Penso che sia giunto il momento – qui ed ora – di compiere un salto nell’analisi, nelle rivendicazioni e nella realizzazione dei rapporti di forza che – se rimanessero inalterati – preannunciano solo irrimediabili rinunce sul piano della giustizia sociale e climatica e della sopravvivenza – come ripete Bergoglio – della casa comune. Quando si comincerà finalmente a riflettere con più profondità sulla coesistenza più o meno possibile tra giorno, notte, lavoro, consumo, veglia, festività, eccesso di capacità trasformativa del lavoro, sopportazione del carico naturale, obsolescenza degli investimenti ad alta tecnologia, concentrazione e proprietà privata della conoscenza, allora ci si renderà conto che non abbiamo predisposto per nulla la cassetta degli attrezzi per sostenere un simile mutamento, tutti presi da un ridicolo presentismo che giorno per giorno sposta la notizia del giorno prima. Ne trattiamo a lungo in “Il mondo al tempo dei quanti” (Agostinelli-Rizzuto ed. Mimesis 2017) e la nostra sensazione che il futuro arrivi quanto meno te l’aspetti si sta rafforzando.
Difficile la riconquista del “tempo proprio” quando la velocità dei processi muscolari e biochimici che regolano il comportamento umano non è minimamente comparabile a quella dei processi artificiali degli apparati elettronici, ormai spinti alla velocità della luce. Difficile non tener conto che azioni a distanza, agiscono come se la distanza si contraesse per effetto della velocità della comunicazione. Ma se gli orologi umani e quelli dei computer battono un tempo diverso, assai più lento per gli elaboratori e le trasmissioni digitali, questi marchingegni devono pure espellere un prodotto finito o consegnare un servizio compiuto laddove la pulsazione del cuore, la durata del respiro e la lentezza del ragionamento e del linguaggio convivono con i prodotti di qualsivoglia trasformazione artificiale e ne validano al fine l’utilità e la bontà! Anche se una infinità di operazioni logiche o di informazioni sono trasmesse durante un battito di ciglia, uomini e donne non possono comprimere il tempo sotto loro controllo – “tempo proprio” – se non a discapito di conoscenza, informazione, relazioni, piacere o dolore, conservazione e trattenimento di vita vissuta in forma di memoria e identità.
In particolare, nell’attività lavorativa in senso stretto, la difficoltà di sintonizzare l’attenzione umana con la costanza e la velocità dei tempi di esecuzione di un robot o di un lettore di cassa è dovuta ad una sfasatura del tempo relativo tra il sistema artificiale e quello biologico, che provoca nel mondo biologico tensione, reazioni, interventi correttivi, movimenti imprevedibili, tanto più è elevata la velocità di elaborazione rispetto alla reazione umana cui spetta la verifica. Sorge così nei luoghi di lavoro – e non solo in essi – un “tempo della prestazione” che non appare nel quadrante dell’orologio appeso alla parete e che non può essere misurato solo in durata di secondi minuti o ore. Emerge dunque una discrepanza, una scissione, una mancata relazione diretta con l’unità di misura tempo-orario utilizzata per stabilire il rendimento, il salario pattuito e dare senso alla contrattazione. È come se, attraverso l’apparato tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più donato all’azienda che ha progettato e introdotto a questo fine l’apparecchiatura artificiale: tempo non riconosciuto in alcun modo al lavoratore e tradotto in spreco delle risorse naturali.
Che il tempo avesse una componente di relatività anche soggettiva già lo sapevamo: i tempi da bambino sembrano più lenti di quelli da adulto; oppure basterebbe chiederci come siano i “secondi” in cui viene scandita la nascita, la nutrizione e la riproduzione di un batterio, o in quanti microsecondi in tutto il pianeta un segnale automatico allinei gli orologi all’ora legale ad un istante predeterminato dalle convenzioni internazionali. Ma tutto ciò è ben altra cosa dalla velocità prodotta artificialmente che oggi avvolge l’homo faber e l’homo economicus e che ci viene ammansita come l’aggiornamento di un software: 4.0, et voilà! Prometeo ridona all’umanità – capitalista – il fuoco ormai in esaurimento. Ma prima di darci per sconfitti, andiamo a vedere più da vicino e capire di che fuoco si tratta.
CARATTERISTICHE E TENDENZE DELL’INDUSTRIA E DEL “MONDO 4.0”
Secondo un articolo pubblicato sul sito della Siemens, che merita di essere valutato, ripreso e sintetizzato per la sua determinazione e “audacia”, ( https://www.siemens.com/global/en/home/company/topic-areas/future-of-manufacturing/digital-enterprise.html) “le industrie di produzione e trasformazione 4.0 beneficiano di un aumento della produttività e della flessibilità e di tempi più brevi per il mercato, che consentono di aumentare così la loro competitività. I loro clienti beneficiano di prodotti più personalizzati di alta qualità. E gli utenti finali possono fare ordinativi su misura per le loro esigenze.” Niente che non sia fin qui già stato visto e valutato. Semmai, siamo di fronte ad una decisa e fiduciosa accelerata. E qui viene in luce il fattore chiave della digitalizzazione che dà forma ai contenuti e unità e continuità a progetti fin qui agognati, ma mai realizzati in una prospettiva organica e dotata di continuità e uniforme diffusione.
Afferma il CEO SIEMENS: “La digitalizzazione rende possibile unire tutte le fasi della catena del valore. I primi tentativi per farlo si erano verificati già nel 1980, sotto forma di Computer Integrated Manufacturing (CIM). A quel momento, però, la prevista integrazione di computer-aided design (CAD) e produzione assistita da computer (CAM) non poteva essere pienamente realizzata. La tecnologia non era abbastanza avanzata perché le linee telefoniche non funzionavano a più di 56 -kbit /s ed erano troppo lente. Oggi, sono possibili velocità fino a 10 Gbit /s – circa 180.000 volte tanto! Inoltre, oggi abbiamo metodi di cattura del modello e dell’immagine molto più potenti, assieme al trasferimento, allo stoccaggio, e alla valutazione di grandi quantità di dati. I progressi tecnologici hanno un effetto non solo sul volume di dati, ma anche il lavoro di manutenzione può essere pianificato: questo riduce notevolmente i tempi di inattività non pianificati e permette interventi di manutenzione da eseguire esclusivamente in tempi opportuni”.
Lo schema è rivoluzionario:
L’industria 4.0 può contare sulla trasformazione di ogni processo in una procedura digitalizzata in cinque fasi: sviluppo del prodotto, pianificazione della produzione, ingegneria di produzione, esecuzione della produzione e servizi. Ma, a differenza degli approcci tradizionali, queste fasi sono viste come un sistema globale, completamente integrato invece di una catena di processi in ordine cronologico. In questo schema rivoluzionario, le innovazioni devono essere progettate già fin dall’inizio, durante lo sviluppo del prodotto per essere testate e modificate digitalmente. Molto prima che il primo prodotto fisico venga in essere, gli sviluppatori hanno già creato un gemello digitale. Con questa duplicazione, possono essere eseguite prove virtuali per determinare se e come il prodotto funziona. Idealmente, i progettisti non dovranno apportare ulteriori modifiche al prodotto finale reale. “L’obiettivo è che il primo prototipo costruito sia già in forma per la vendita”, afferma Wekkesser, direttore della divisione digitale della Siemens. Infine, la digitalizzazione include tutti i servizi che aiutano il cliente a raggiungere la massima produttività, ridurre i costi operativi, e, in generale, ottenere il massimo dal prodotto consegnato.
Strategica diventa la sicurezza dei dati. E’ necessaria un’infrastruttura di comunicazione efficiente per lo scambio di dati in rete e di soluzioni di sicurezza affidabili per garantire che tutti i software funzionino armonicamente con gli stessi format. Il ricorso al cloud è controllatissimo, perché da questa tecnologia “esterna” potrebbero venire problemi di privacy e tutela dei brevetti. La concorrenza, insomma, si sposta a monte della realizzazione del prodotto in serie personalizzato.
Il progresso tecnologico, tuttavia, non è l’unica cosa che guida – secondo Siemens – lo sviluppo del Digital Enterprise 4.0. “I clienti diventano fondamentali in questo sviluppo e devono essere forzatamente (non liberamente!) integrati. Vanno sostenuti nel loro percorso verso il digitale, perché le esigenze dei clienti sono sempre più individuali e devono essere soddisfatte in modo flessibile. “Il nostro obiettivo per aumentare la produttività è, alla fine, una dimensione del lotto di uno, un uso più efficiente delle risorse umane e delle macchine, e un impegno primario per ridurre il consumo di energia e materie prime. Il servizio clienti passa le richieste dei clienti allo sviluppo. La pianificazione della produzione riceve informazioni sui miglioramenti nelle sequenze di produzione. La produzione raccoglie i dati che consentono di aumentare la precisione della pianificazione e l’efficienza produttiva”. Insomma: un Vangelo! A cui forniranno credenziali le nuove possibilità offerte dalla stampa 3D, che offriranno un contributo significativo verso una produzione flessibile più individualizzata e in grado di creare i componenti di metallo, plastica, o ceramica che, in passato, non era possibile realizzare. Tutto bene, allora! Tutto previsto e di facile applicazione purchè ci si trovi in un ambiente produttivo e di consumo dove il lavoratore non ha alcuna autonomia e il consumatore è “ab initio” sussunto nella missione dell’impresa.
SATURAZIONE E RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
L’espropriazione del tempo è una condotta di classe che non ha confini. Ripristinare l’autonomia individuale e l’utilità collettiva del proprio tempo qualificherebbe i diritti sociali in una società liberata. Non si tratta solo di quantità di ore della giornata e della vita, ma della qualità sociale che assumerebbe l’intero arco della esistenza e dell’attività di riproduzione, produzione, ozio, apprendimento e consumo. Le tecnologie estreme di cui discutiamo, basate sull’elettronica e la digitalizzazione, uniformano le cadenze e i ritmi delle esistenze in base a velocità artificialmente determinate con l’obiettivo della massimizzazione dei profitti. È possibile ribadire la priorità del tempo biologico e di quello dei cicli della biosfera su quello della produzione e del consumo regolato dagli orologi digitali? Questo è il quesito che ha di fronte l’organizzazione sindacale, se si rende consapevole che la digitalizzazione e la velocità della luce presentano sfide particolari con cui ci confrontiamo per la prima volta con un bilancio almeno iniziale di perdita di potere evidente.
Se non si riparte dalla revisione del tempo retribuito e quindi dalla consistente riduzione dell’orario di lavoro per poter fare altro, non sarà mai possibile redistribuire i guadagni di produttività accaparrati esclusivamente dall’impresa e riversati immediatamente nel volano finanziario. Tanto meno avrà successo rifinalizzare l’eccesso di capacità trasformativa che è oggi indirizzata esclusivamente verso un eccesso di consumo e lo spreco. Senza la riconquista di tempo proprio, anche per studiare, ricomporre conoscenze e quindi lavoro frammentato, cogliere la peculiarietà e la singolarità del vivente, riequilibrare le funzioni di genere, rafforzare relazioni e fruire dei tempi della democrazia, dove finiranno l’autonomia e il carattere oppositivo – quando lotta – e insieme cooperativo – quando contratta – del movimento del lavoro?
È impensabile una futura integrazione uomo macchina così spinta, come è alle viste già oggi, da cambiare la “natura della specie”. I tempi dell’economia e la velocità dei cicli artificiali non solo ignorano le leggi della termodinamica e dell’aumento irreversibile dell’entropia, ma non si preoccupano della cura della biosfera e della Terra.
Questo necessario “ritorno a terra” obbligherebbe a mettere a valore sociale i beni relazionali e i beni comuni, la cui valorizzazione è incompatibile con la concezione diffusa del commercio e della proprietà privata e con la discriminazione di genere che continua a tenere il campo. Il degrado di materia e energia e la direzione della freccia del tempo, per cui qualunque trasformazione naturale o prodotta dall’uomo assume un verso che impedisce di ripristinare “gratis” le condizioni precedenti, richiedono, in definitiva, che l’efficienza energetica e il risparmio di risorse non rinnovabili corroborati dall’informazione (questa sì in questo caso specifico a velocità comparabile con quella dello scambio di energia) prendano posto tra le priorità dell’agenda politica. Anche qui si tratta in senso lato di riappropriazione del tempo e di partecipazione.
Un aspetto non prettamente fisico su cui riflettere ma che, a sua volta, ha a che fare con l’entropia e la rigenerazione della nostra società è il rapporto paritario tra i sessi cui già abbiamo accennato. Riappropriarsi del tempo ha certamente una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di potere al maschile.
Io penso ad una ridistribuzione dell’orario, dopo la formazione universitaria e prima della quiescenza, su un arco di cinque giornate con quattro ore di lavoro e tre di studio retribuite, oltre a giornate aggiuntive concordate di riposo per un totale di applicazione studio-lavoro di non più di 1400 ore anno, anche per dotarsi di profili professionali in grado di svolgere in parte attività di cura e in parte di selezionare/progettare in maniera opportuna i nuovi materiali conoscendo la relazione proprietà-struttura-tecnologie di processo, all’interno di una configurazione ciclica dell’economia.
Aggiungo che non si tratterà solo di tempo nei luoghi di lavoro. I tassi di crescita delle azioni necessarie, degli spostamenti, della diffusione di conoscenza critica superano perfino i tassi di accelerazione tecnologica. Per questa ragione il tempo scarseggia sempre di più. Il paradosso dell’accelerazione in se stessa, vista come un’inevitabile direzione di marcia, si traduce in una nuova alienazione: dallo spazio circostante; dalle cose a cui ci “affezioniamo”; dal nostro agire consapevole e scelto; dall’ambiente.
C’è infine una questione ineliminabile di cui ci occuperemo diffusamente dopo aver esaminato la possibile intercambiabilità tra energia e informazione: una saturazione artificiale del tempo di lavoro come quella che stiamo esaminando non è socialmente e economicamente compatibile, ma provoca una alienazione e contemporanea espulsione della maggior parte degli occupati nel processo produttivo.
L’ENERGIA E L’INFORMAZIONE NELLA SCIENZA ECONOMICA
Le caratteristiche emergenti si possono sintetizzare in velocità, sincronizzazione, conservazione dei dati, abolizione del lavoro in sequenza, flessibilità finalizzata alla precarietà del lavoro e alla personalizzazione del prodotto. Ma, soprattutto, trasformazione del mondo in dati scomponibili e interpretabili attraverso interfacce tecniche con le persone in carne ed ossa. “Persone digitali” vengono definiti gli operatori in posizioni chiave da prendere in considerazione. E l’energia è ampiamente trattata non più solo come potenziale erogatrice di lavoro, ma sempre più come informazione. Seguendo questa traccia, il binomio energia-informazione rivelato nella sua veste più appropriata dalla scienza più recente potrebbe risultare indispensabile per protrarre la durata della specie umana intelligente e potrebbe aprire vie convenienti anche per impostare, preservare e valorizzare il futuro del lavoro.
Ma non mi sembra di rintracciare questa opportunità straordinaria nell’”era 4.0”
La Natura produce complessità, strutture ordinate, resilienza al disordine, vita, trasmette e conserva informazione. Dove c’è vita, la proliferazione e l’organizzazione si verificano con conseguente aumento della complessità. La ricchezza in natura è costituita da innumerevoli strutture complesse di condensato di energia e massa di lunga durata, veri e propri agglomerati di informazione da decodificare. La ricchezza che viene prodotta nella società umana è il risultato di dissipazione deliberata attraverso l’impiego di lavoro e di una trasformazione e riformulazione cosciente di energia e materiali, che costituiscono energia “congelata”, messa e mantenuta a disposizione prevalentemente per scopi umani. La conoscenza è un tipo di ricchezza immateriale che ci permette di dissipare e di utilizzare la ricchezza naturale nel modo più efficace (a più bassa entropia) per scopi che dovrebbero riguardare l’umanità intera. C’è solo un modo per limitare il danno quando si attua una trasformazione e si compie lavoro: estrarre dalla quantità di informazioni a disposizione il contributo di conoscenza che si conserva e che sostituisce in parte la ricchezza dissipata. Mantenere cioè più ordine possibile ed evitare sprechi. In fondo, il modello 4.0 e i proclami per andare verso una società della conoscenza, dovrebbero basarsi, più o meno inconsciamente su queste ultime considerazioni. Ma può la ricchezza immateriale delle informazioni e delle idee, che costituisce l’economia della conoscenza, sostituire l’accelerazione dell’impoverimento della ricchezza naturale e la distruzione del lavoro perpetrata nel sistema capitalistico sotto la forma dello spreco e della massimizzazione del profitto, in modo da consentire la sopravvivenza della biosfera? Come faremo evolvere il binomio energia-informazioni per assicurare nuove generazioni a questa civiltà? Non è certo questa la preoccupazione del sistema 4.0, che addirittura, con l’estromissione del lavoro dalla conoscenza, ottenuta con l’ormai totale incorporamento di questa nel macchinario – costituito da sistemi di assemblaggio automatico, controllato da algoritmi programmati all’esterno, verificato con dispositivi che trasmettono alla velocità della luce – porterà alla definitiva scomparsa di donne e uomini dal processo produttivo.
Al di là della complessità delle formulazioni e della incompletezza del ragionamento qui articolato, il bilancio [energia – risorse naturali – trasmissione “istantanea” – elaborazione riservata di informazioni – proprietà della conoscenza] merita di essere indagato per come va rapidamente evolvendo in un modo di produzione che sta ingoiando il lavoro e la vita senza opposizione e lotte all’altezza della partita in corso.
INFORMAZIONE, ALGORITMI E DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
Già abbiamo constatato come le macchine di nuova progettazione infrangono i modelli della meccanica classica e cominciano ad imitare e simulare l’intelligenza a velocità irraggiungibili dalla mente umana. Ma, anziché approfondire il senso e l’ordine estremo dei processi in corso, nel mondo politico e nell’opinione pubblica divampa il clamore della notizia – che attualmente prende la forma di un autentico e un po’ goffo “panico da robot” che, a mio parere, andrebbe quantomeno razionalizzato e ridimensionato.
In effetti, come già accennato, sono le differenze di velocità relative incomparabili tra i circuiti elettronici, i neuroni del cervello, le attività motorie biologiche e meccaniche che rappresentano una sconvolgente novità su cui riflettere e di cui tener conto. Abbiamo compreso che c’è una nuova gerarchia temporale (di velocità!) tra procedure automatizzate e digitalizzate, controllo e reazione dell’operatore umano, assemblaggio meccanico di componenti. Le procedure possono essere eseguite da algoritmi ultraveloci, l’assemblaggio da robot ultraprecisi e instancabili, mentre l’operatore può al massimo vedersi saturare il tempo di lavoro (e contrattarne – se ne diventa cosciente – la decompressione e l’accorciamento). Rendiamoci quindi conto che per la prima volta nella storia sono messi in concorrenza in sede di produzione in modo così esteso tempi artificiali e tempi biologici, con la divaricazione irreversibile e sempre più marcata tra tempo di vita e di consumo e tempo di produzione e di controllo.
Ciò che dobbiamo valutare come salto qualitativo e quantitativo non è l’incremento dovuto alla singola apparecchiatura presa a sè, ma l’interazione di più fattori che rendono assai potente ed efficiente l’organizzazione di un sistema di algoritmi, robot e operatori tra loro connessi alla velocità della luce. Big data, intelligenza artificiale, potenza di calcolo, connettività, sistemi esperti, interazioni uomo macchina, predisposizioni in linea di stampanti 3D e robot plurimansioni costituiscono un modello sconvolgente ma, a mio giudizio, insostenibilmente astratto (specificamente nel senso usato da Marx per il futuro del lavoro), di difficile o impossibile diffusione, a meno di riassetti sociali ed economici oggi imprevedibili. L’impressionante incalzare della velocità incorporata artificialmente in modelli assai più neuronici che meccanici non pone solo la questione della diminuzione dello sfruttamento attraverso la riduzione del tempo destinato al lavoro, ma, addirittura, il dramma di una definitiva espulsione e marginalizzazione di donne e uomini rispetto al processo produttivo. Saremmo di fronte alla comparsa di una figura antropologicamente inedita che fin dalla nascita è destinata a rimanere fuori, perché non più necessaria. Direi proprio antropologicamente irrealizzabile perfino per il capitale.
Quale sistema di redistribuzione consentirebbe un equilibrio così scompensato tra produzione, consumo, distruzione della natura, diritto alla cittadinanza in capo al lavoro? Ci troveremmo di fronte ad una sovrappopolazione improduttiva che tenderà a comprendere la maggioranza degli uomini e delle donne. Questa prospettiva cambia tutto. Il problema non sarà più quello classico dello sfruttamento che stava, nella complessità dell’analisi, al centro del pensiero di Marx sull’oppressione. Il problema fondamentale diventerà l’alienazione della maggioranza della popolazione. Invece di esserci la liberazione dal lavoro ci sarà l’espropriazione della capacità lavorativa. E l’enorme surplus produttivo creato, dove andrà a finire? il capitale stesso a che cosa servirà? Non se ne parla affatto. Una nuova vertiginosa foia prometeica, guidata dal capitalismo più arrogante e insaziabile, potrebbe fare a meno quantitativamente del suo antagonista dopo averlo sconfitto?
In un saggio presentato alla Fondazione Micheletti il sociologo Peter Kammerer osserva come la storia del conflitto operaio veda il coesistere di due poli che si oppongono reciprocamente nella necessità del loro convivere e produrre in comune. La co-operazione, l’operare insieme – anche se in conflitto e nei momenti più alti in autonomia – è sempre stata la maggiore forza produttiva della storia: una forza produttiva intrinsecamente positiva che, proprio per la sua convenienza e bontà storica, non può non entrare in contraddizione, di volta in volta, con i rapporti di proprietà quando, irrigiditi nel loro privilegio e arretratezza, impediscono lo sviluppo dell’elemento storico progressivo. Finché coesistono cooperazione e opposizione, non credo possibile la fine di una produzione comunitaria di soggettività, in quanto esiste lavoro non normalizzato e normato fino all’alienazione totale. La schiavitù non ritorna sotto la specie intellettuale anziché manuale. Credo quindi che anche per salvaguardare il sindacato bisogna contrastare l’alienazione, intesa come espropriazione del lavoro e della conoscenza ottenuta con l’applicazione della tecnologia e della scienza. Un’aberrazione che produce il nesso sistemico macchina-forza lavoro e che soprattutto, rispetto al ruolo che la soggettività aveva nei precedenti processi lavorativi, sottrae al lavoratore la capacità stessa di usare e di mettere in moto i mezzi di produzione. Forse la fatidica industria 4.0 punta proprio a questo e perciò l’organizzazione dei lavoratori deve da subito far rientrare nella prestazione lavorativa ad orario ridotto gli elementi di controllo e di conoscenza che vengono portati con feroce determinazione all’esterno e consegnati all’impresa e alla proprietà privata. Contrattare gli algoritmi, rendere pubblico e trasparente l’accesso ai dati, educare alla scienza, ricomporre le mansioni riscrivendo le schede di lavoro “depositate” nel macchinario, ridurre la velocità dei processi di produzione e di consumo, organizzare forme cooperative integrate per la valorizzazione e il non consumo di territorio, rivendicare in un contesto non isolato un salario sociale, ricostruire le filiere energetiche e agricole su basi naturali e rinnovabili, scacciare la proprietà privata dai beni comuni: oserei dire che questo è il nuovo fronte di classe attorno cui ricostruire una soggettività che si dia l’ambizione di cambiare lo stato delle cose, insediandosi anche oltre il lavoro salariato ridotto a polo di integrazione funzionale all’interno del sistema capitalistico e della sua riproduzione complessiva.
SALARIO GARANTITO?
Abbiamo scritto che l’espropriazione del tempo, è una condotta di classe che non ha confini e che il ripristino dell’autonomia individuale e collettiva sul proprio tempo qualificherebbe i diritti sociali in una società liberata. Se si discute di orario, implicitamente si tratta non solo di quantità di ore della giornata e della vita, ma della qualità sociale che assumerebbe l’intero arco della esistenza e dell’attività di riproduzione, produzione, ozio e consumo. I tempi che sperimentiamo hanno una componente relativa e soggettiva che dipende dall’intensità dei ritmi, dalla rapidità con cui si accumulano esperienze, dal riconoscimento ottenuto nell’ambiente sociale di riferimento, perfino dalla strutturazione della nostra memoria e coscienza individuale, ma – come abbiamo discusso – soprattutto dalla velocità dei processi di produzione e consumo.
La tecnologia rappresenta l’illusione più accattivante per convincere il genere umano di potersi sottrarre ai vincoli naturali, di non adattarsi a far parte di un universo che la scienza descrive con maggior precisione ogni volta che scopre i principi limitanti (entropia, massima velocità, indeterminazione etc.) che in esso operano. E c’è da chiedersi chi e quale ideologia abbia fornito un profilo utopico alla tecnologia che si è imposta negli ultimi cento anni. La risposta è impietosa per quelle culture che hanno proposto una visione socialista in contrasto con quella capitalista. Anche attraverso la tecnologia il capitale ha saputo trasmettere un messaggio confacente coi suoi propositi. Non ci si deve pertanto stupire se non c’è un convincimento diffuso che sulla riappropriazione del tempo in uno spazio compresso dalla velocità elevatissima che riguarda le comunicazioni, il trasferimento di informazioni non soggette a controllo e di decisioni prese in un sistema senza partecipazione, si gioca la prospettiva politica e democratica di un riequilibrio a favore di natura e lavoro nella contesa con il capitale. Questo convincimento è urgente e indispensabile.
Di Marx esiste un frammento enigmatico nel quale riflette sull’evoluzione in velocità sempre più estrema della produzione e ne deduce un tipo particolare di “fine dell’economia” e, naturalmente, il crollo della teoria del valore. O meglio, un nuovo tipo di economia guidata dalle macchine dove quella legge non ha più alcun senso. Se già fossimo vicini a queste condizioni, ma io non lo credo e continuo a pensare che la via maestra per contrastarle sia quella dell’orario (durata, carichi, ritmi, diritto all’educazione), dobbiamo prendere in considerazione la sciagura per il futuro della sinistra di una irreversibile marginalizzazione di donne e uomini rispetto al processo produttivo. Natoli definisce questa eventualità “la comparsa di una figura antropologicamente inedita che fin dalla nascita è destinata a rimanere fuori, perché non più necessaria”. In questo scenario, l’ipotesi di “salario garantito” è destinata a non abbandonare più il dibattito politico. Un salario complementare al lavoro anche quando il lavoro non c’è, affinché resti chiaro – come afferma la Costituzione – che la separazione del lavoro dall’economia porta alla fine del controllo sociale sia del potere economico che dell’impresa. A questo riguardo, il dibattito tra i socialisti per le presidenziali francesi può risultare illuminante. Hamon, inserendo nel suo programma il reddito di cittadinanza ha dato l’estro a Valls per denunciare una “società dell’assistenza e dell’ozio”, dimenticando che l’identificazione storica tra lavoro e lavoro retribuito è un prodotto del capitalismo. Se si arriva a sostenere che la sopravvivenza può prescindere dalla quantità di lavoro salariato (4.0….), rimane l’aspirazione universale di emanciparsi liberamente nell’attività che più corrisponde alle proprie inclinazioni. Una interpretazione “Keynesiana” del progresso con meno ore lavorate favorirebbe una riconversione professionale o l’avvio di attività più utili sul piano sociale, mentre il salario garantito diventerebbe un reddito primario e non secondario, generato dalla redistribuzione. Una cosa di sinistra, evidentemente, all’altezza di un ripensamento faticoso e difficile per chi proviene da una cultura lavorista, ma aderente a quell’autentico subbuglio nella scienza, nella tecnica, nell’organizzazione del lavoro, nella crescita delle disuguaglianze, nel consumo di natura, che però non sfiora la politica. Nel cui perimetro gli opinionisti cercano di dar pregio all’indeterminazione dei protagonisti, molto simili anche quando si combattono e caparbiamente refrattari a programmi di svolta. Formidabile Macron, il banchiere vincitore, che salito all’Eliseo ha voluto dare di sé una immagine aggiornata ed esemplificativa nientemeno che del famoso Gatto di Scroedinger, contemporaneamente vivo e morto, quanto lui, contemporaneamente “e di destra e di sinistra”.
Con sufficiente coraggio politico sarebbe possibile offrire una rete di sicurezza alla massa di disoccupati e precari e sollevarli dalle condizioni di privazione del controllo della propria esistenza. Occorrerebbe mettere a controllo la velocità e applicare prelievi fiscali sia sulla speculazione finanziaria, che sul patrimonio, che sulle emissioni di climalteranti, che sull’impiego sostitutivo di robot, che sulla brevettazione di organismi viventi, tutte questioni che si avvalgono della compressione artificiale del tempo, ma sostanzialmente e ostinatamente esentate da ogni accenno di tassa. Il dibattito è solo all’avvio: molto incerto e controverso, ma una politica di inclusione diventa praticabile solo se ci si rende conto che una rivoluzione culturale è indispensabile per la presa in carico delle emergenze a lungo termine.
SPUNTI ESTEMPORANEI PER UN RUOLO DEL SINDACATO
Naturalmente qui affronto un “esercizio di scuola” senza la minima presunzione di essere preciso ed esauriente: vado esclusivamente per schemi di priorità e per accenni che possano risultare evocativi di una ben più seria e non estemporanea strategia.
La rete ha sostituito la concentrazione di fabbrica (o di uffici e presto inciderà anche nei supermercati). Al contrario della disposizione del lavoro precedente, non ci sono muri, semilavorati che passano di mano in mano di operai o addetti comunque in carne ed ossa; il controllo del flusso è totale e estraneo a qualsiasi forma di lavoro organizzato in sindacato; il tempo è scandito da sistemi che si relazionano fisicamente attraverso la relatività einsteniana, ma non se ne tiene conto. Il prodotto ha una componente di virtualità che consente una continuità ininterrotta nel passaggio dal prototipo testato al prodotto commerciale. Il tempo degli operatori è totalmente saturato, espanso su sette giorni e 24 ore. La sostituzione del lavoro umano attraverso le macchine incorpora conoscenze e crea disoccupazione strutturale, mentre la compensazione salariale è prosciolta dal meccanismo della contrattazione.
Il sindacato dei lavoratori deve organizzarsi nella rete con la stessa determinazione con cui era entrato in fabbrica. Eleggere delegati che si posizionino nei nodi della rete e abbiano recapiti territoriali. Inizialmente si deve proibire ogni prestazioni di lavoro attraverso la rete aziendale (mail, procedure, consultivi, messaggi) fuori dall’orario stabilito: nessun prolungamento della “presenza virtuale” attraverso smartphones e computer etc. Il desktop aziendale e quello personale devono essere separati. Le comunicazioni tra delegati sono coperte da privacy. L’impresa comincia ad istituire corsi di apprendimento retribuiti che vengono frequentati gradualmente da tutti in orario di lavoro ed hanno al centro il funzionamento dell’organizzazione del lavoro e del controllo dell’impresa. Gli algoritmi diventano oggetto di informazione e contrattazione. L’orario viene radicalmente ridotto a parità di salario con un sostegno di legge e il salario garantito accompagna la ricerca o l’apprendimento o il miglioramento dell’attività di lavoro e di cura sottoposti a controllo sociale e istituzionale. L’applicazione della Tobin Tax e della CarbonTax obbligano a rallentare i meccanismi finanziari e climalteranti in corso e forniscono una base di ricchezza da redistribuire a natura e lavoro.